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Il regno di Aureliano

di Mariano Malavolta

“Nel giorno delle feste di Cibele il prefetto dell’Urbe Giunio Tiberiano, dopo aver compiuto le sacre cerimonie mi accolse nel suo cocchio giudiziale e conversò con me per tutto il tragitto dal Palazzo fino ai giardini di Vario, soffermandosi in particolare sulla vita degli imperatori. Giunti al tempio del Sole, costruito come tutti sanno da Aureliano, che si diceva discendente da quella divinità, il mio interlocutore mi domandò chi avesse scritto la vita di quell’imperatore e quando io gli confessai che non esistevano biografie di lui in latino, ma solo qualche opera in greco , il nobile personaggio, dolorosamente colpito, esclamò: ‘Così i nostri posteri, come del resto noi, conosceranno bene Tersite e Sinone, e tutti gli altri strani personaggi dell’antichità, e non sapranno nulla di una figura come quella di Aureliano, il glorioso principe e il severo imperatore che restaurò la potenza romana nel mondo! È semplicemente assurdo. Ma dal momento che, se non sbaglio, noi possediamo le cronache del suo regno e il racconto storico delle sue guerre, perché non riordini questo materiale aggiungendovi le notizie biografiche che, con la consueta diligenza, potrai ricavare dai libri lintei sui quali egli faceva annotare giorno per giorno tutti gli eventi che lo riguardavano? Io farò in modo che questi testi, che ora si trovano nella biblioteca Ulpia, vengano messi a tua disposizione’ ”.

È il 25 marzo del 292 d.C. (poco meno di 1712 anni fa), giorno degli Hilaria, festa sacra alla dea Cibele , successiva all’equinozio di primavera: occasione giocosa di una specie di mascherata che solennizzava, come nota Macrobio, l’avvento del primo dì dell’anno di durata più lunga di quella della notte . Il personaggio che parla in prima persona, preso a bordo della presumibilmente lussuosissima “auto blu” di Tiberiano è Flavio Vopisco siracusano, uno dei sedicenti scriptores historiae Augustae, che in tal modo introduce (con consumata abilità di scrittura) la sua biografia dell’imperatore Aureliano e la giustifica con l’invito rivoltogli da una persona di riguardo, che lo onora della sua amicizia, a celebrare la degna figura di quell’imperatore, morto appena 17 anni prima.

Tutto questo potrebbe essere vero: Giunio Tiberiano fu veramente praefectus urbi in quell’anno, come attestato dal Cronografo del 354, ma secondo gli studiosi moderni non poteva disporre ancora, a quell’epoca, del carpentum iudiciale (o vettura di servizio) che sarebbe entrata a far parte della dotazione della sua carica solo in età più tarda, ai tempi della prefettura di Simmaco del 384. Altra incongruenza: il percorso dal Palatino, sede del tempio di Cibele, agli horti Variani (adiacenti al circo Variano, e dunque dalle parti di Porta Maggiore), viene dall’autista di Tiberiano impostato imboccando la strada che passava davanti al tempio del Sole, costruito da Aureliano nel Campus Agrippae a partire dal 273 (fra via del Corso, via della Vite e via della Mercede, e dunque all’incirca sotto s. Silvestro) : sembra quasi, a voler credere al nostro Autore, che la vettura in questione abbia preferito, invece che dirigersi fra Esquilino e Celio (nella direzione più ovvia), evitare il “centro”, magari intasato da una folla di maschere, e tirare dritto per via del Corso, per poi fare il giro delle mura di Aureliano (da qualche anno terminate). Da questi e da molti altri indizi, rilevati dagli specialisti della difficile ed interminabile opera di ermeneusi del testo della Historia Augusta, risulta abbastanza evidente che proprio il nostro Vopisco, autore della vita di Aureliano, è fra gli scriptores quello che sembra più desideroso di suggerire al lettore indizi sulla fantasiosità della sua mistificazione. D’altra parte, ancorché fantasiosa e inaffidabile, la biografia di Vopisco ha conservato l’esclusiva, in qualche modo profetizzata già dal suo autore, di essere l’unica elaborazione di una qualche consistenza a noi tramandata dall’antichità, e dunque mi è sembrato opportuno, in questa circostanza, richiamare l’attenzione che essa merita, specie nel confronto con i modesti materiali forniti dalla tradizione, che consistono per lo più di poche righe dedicate ad Aureliano da epitomatori come Aurelio Vittore, Eutropio, Orosio, o dall’anonima Epìtome de Caesaribus, dalle compilazioni di Zosimo, di Xifilino, di Zonara e del lessico della Suida, ai quali si aggiungono i pochi frammenti dell’ateniese Dessippo, di Eunapio di Sardi e del c.d. Anonymus post Dionem.

Il dato che emerge dall’analisi delle fonti è istruttivo soprattutto per illustrare il vigoroso recupero, come di campioni dell’ormai evanescente romanità, con cui in extremis la storiografia di ispirazione senatoria e di spiriti pagani affidava sommessamente ad una letteratura pseudoepigrafa e dunque protetta dall’anonimato (anche se incline a provocatorie denunce) il compito di esprimere il tardivo rimpianto per la memoria, nei passati secoli spregiata, dei successori del primo Augusto.

Il tempestoso periodo di anarchia seguito alla uccisione di Severo Alessandro nel 235 aveva in poco più di trent’anni pericolosamente minato l’unità e l’organicità dell’impero, che alla morte di Gallieno, nel 268, era smembrato e ridotto ad un centro assai instabile (minacciato sulla frontiera danubiana) e nei due tronconi semiautonomi dell’imperium Galliarum creato da Postumo in difesa della frontiera renana, mentre a Oriente il confine coi Parti (insidiato da Shapur, vincitore di Valeriano nel 260) era tenuto dalla correctura Orientis di Odenato, incentrata sul regno Palmireno. Era stato il sorgere di queste autonomie periferiche (quasi anticipazioni spontanee delle prefetture del pretorio che di lì a poco sarebbero state create dalla riforma amministrativa di Diocleziano) a salvare l’impero dalla montante marea delle aggressioni esterne, e va detto che era stato uno dei provvedimenti di Gallieno (l’esclusione dell’elemento senatorio dalle legazioni di legione e dunque dai comandi militari) a promuovere, all’incirca dopo il 264, uomini di valore come Aureolo, Postumo, e gli stessi Aureliano e Probo, protagonisti della “ripresa” del’impero attribuita ai restitutores Illyrici.
Quando, nel 270, la peste uccideva a Sirmium Claudio II vincitore dei Goti, la scelta di un successore che continuasse il suo compito era d’importanza vitale. La nomina di Quintillo, fratello di Claudio, fu appoggiata dal senato e da quella parte dell’esercito che si trovava in Italia, ad Aquileia, ma si mostrò ben presto inadeguata di fronte al pronunciamento militare che si ebbe poco dopo proprio a Sirmium, in Pannonia, ossia nel quartier generale del defunto imperatore: fu ben chiaro che sarebbe stato Aureliano, capo della cavalleria di Claudio e incaricato delle operazioni sul basso Danubio, a vestire la porpora e a Quintillo non restò che togliersi la vita (gesto al quale egli fu spinto, a quel che pare, dai suoi stessi soldati).
Ormai più che cinquantenne, nativo di Sirmio o di altra non precisata località del confine danubiano, Lucio Domizio Aureliano - detto manu ad ferrum per la prontezza e la ferocia delle sue punizioni - era un duro soldato della nuova scuola, di umili origini, nato da un colono già militare insediato nelle terre di un senatore Aurelio e da una sacerdotessa del dio Sole. La sua brillante carriera lo aveva portato a godere dei favori del ricco consolare Ulpio Crinito (che si pretendeva discendente dell’imperatore Traiano), che al valente ufficiale avrebbe anche dato in moglie la propria figlia Ulpia Severina. Le fonti ricordano la sua partecipazione alle decisive azioni che avevano portato alla eliminazione di Gallieno e, poco dopo, all’uccisione dell’usurpatore Aureolo ed è indubbio il suo ruolo di braccio destro dell’imperatore (dopo la riforma costantiniana si sarebbe detto il suo magister equitum), e insieme con lui, di artefice della vittoria sui Goti (sbaragliati da Aureliano a Dobero in Macedonia) e del loro completo sterminio, seguito alla vittoria di Naisso.
Aureliano non poté subito raggiungere Roma, ma fu trattenuto sul limes dalla necessità di intercettare i barbari Iutungi, reduci da scorrerie nella Rezia, al passaggio del Danubio, costringendoli alla resa e alla pace senza pagamento del tributo imperiale al quale essi erano da tempo assuefatti. Fu forse dopo questo primo successo che Aureliano poté recarsi nell’Urbe, per chiedere il riconoscimento del senato, ma nuove minacce lo costrinsero a tornare subito sul Danubio per respingere Vandali e Sarmati Iazigi che avevano invaso la Pannonia, e che furono sconfitti nell’autunno del 270, ed exterminati, ossia ricacciati oltre il Danubio. Non potendo provvedere con la stessa immediatezza alla situazione in Oriente, Aureliano era costretto a riconoscere a Vaballato, che regnava accudito dalla madre Zenobia, i titoli già concessi da Gallieno a suo padre Odenato. A Roma, intanto, si faceva sentire il malcontento dei partigiani di Quintillo, e ancor più grave era divenuta la situazione verso la fine dell’anno 270: Iutungi e Alamanni scendendo di nuovo in Italia, si erano spinti fino a Milano sconfiggendo pesantemente Aureliano a Piacenza e dilagando fino in Umbria. La notizia della disfatta imperiale aveva avuto riscontro in Oriente, dove Vaballato già rector Orientis aveva assunto il titolo di Augusto: fu sicuramente questo il momento più difficile del regno di Aureliano, che seguendo l’antico costume consultò i libri sibillini l’11 gennaio del 271 e fece eseguire i sacrifici espiatorii prescritti dai sacerdoti.
L’antica religione funzionò ancora una volta: subito dopo gli Iutungi invasori vennero sconfitti a Fanum Fortunae e a Pavia e ricacciati di nuovo oltre il Danubio. La crisi, che aveva dato luogo al sorgere di nuovi usurpatori, come Urbano nella Mesia, Domiziano nella Narbonensis e Settimio in Dalmazia, fu risolta e le rivolte furono domate quasi subito, mentre l’unica vera sfida all’autorità del nuovo infaticabile imperatore venne, nel centro dell’impero, dai funzionari della zecca di Roma, che avevano “svalutato la moneta”, probabilmente sottraendo il metallo prezioso nella coniazione: forse è da considerare esagerato il particolare dei settemila caduti sul Celio nella repressione di questa rivolta, che avrebbe portato ad una vera e propria battaglia campale, ma è assai probabile che i motivi di scontento dei monetieri, sino ad allora abituati ad una totale libertà di azione, siano stati condivisi anche da tutta una serie di persone (fra le quali elementi del senato già partigiani di Quintillo e le loro vaste clientele) che nelle difficoltà del primo anno di Aureliano avevano intravisto la possibilità di una aperta ribellione, alimentata dal clima di aletorietà e di perenne rischio cui la grande metropoli si sentiva esposta per la continua presenza di orde di barbari saccheggiatori nelle regioni immediatamente adiecenti. Questo spiega la decisa risoluzione di avviare, subito dopo la repressione della rivolta del monetiere Felicissimus, la costruzione delle famose mura, iniziata nel 271 e terminata durante il regno di Probo: un baluardo efficace non soltanto contro l’eventualità di una vera invasione, ma anche contro il senso di instabilità indotto dalla stessa collettiva percezione di un così grande ed inerme agglomerato urbano.
Sistemate in tal modo le cose a Roma e in Italia l’imperatore poté rivolgersi alla situazione del fronte orientale (un problema sicuramente prioritario rispetto alla secessione di Tetrico, divenuto Augusto dell’imperium Galliarum), servendosi anche dell’aiuto di Probo, uno dei più valenti generali al suo servizio (e che di fatto gli succederà sul trono). In Oriente Vaballato e sua madre Zenobia si erano infatti sottratti al pur formale vincolo di vassallaggio tenuto in passato da Odenato, ed avevano invaso l’Egitto. Qui agì Probo, che riuscì a recuperare la provincia, mentre Aureliano diretto in Oriente attraversava la regione balcanica in Dacia: una pausa nel viaggio del corpo di spedizione diretto in Oriente fu necessaria per respingere un’orda di Goti al comando di Cannabauda, che si erano resi non poco molesti con scorrerie nella provincia di Mesia, al punto di convincere gli stati maggiori romani ad accelerere l’abbandono delle provincia oltre il Danubio, conquistata e ordinata da Traiano nel primo decennio del secondo secolo, trasferendone gli abitanti sulla riva destra del fiume, lungo la quale veniva riformato il limes dell’impero, riconducendolo dentro quello che a suo tempo Augusto aveva individuato cone confine naturale.
Aureliano passò poi in Bitinia (una delle province rimaste fedeli a Roma) e dalla Bitinia passò nella Galazia, che i Palmireni in ritirata lasciarono nelle mani degli imperiali. Costoro poterono così giungere indisturbati fino a Tiana in Cappadocia, nel cuore dell’Anatolia, conquistata senza strage dei suoi abitanti. Le truppe dei Palmireni, guidate da Septimius Zabdas, avevano nel frattempo attraversato la Cilicia e si erano attestate in Siria, sul fiume Oronte, davanti alla città di Antiochia, dove una prima battaglia fu vinta dalla cavalleria romana. Ai Palmireni riuscì di ritirarsi, lasciando per copertura un presidio a Dafne (sobborgo di Antiochia), per riorganizzarsi poi più a Sud, presso Apamea. Ma ad Aureliano non fu difficile sbarazzarsi della spina di Dafne, e poi conquistare via via, lungo il corso dell’Oronte, le città di Apamea, Larisa, Aretusa, per giungere finalmente ad Emesa, dove si svolse la battaglia decisiva con le truppe palmirene guidate di Zabdas, che fu battuto ancora una volta e fuggì con Zenobia verso il deserto, alla volta di Palmira. Nell’agosto del 272 cadeva anche la città di Palmira, centro dello stato di Zenobia, e venivano fatti prigionieri la stessa Zenobia, Vaballato suo figlio e Zabdas, mentre veniva spietatamente messo a morte il retore Longino, denunciato come fraudolento consigliere dalla sua regina. Aureliano poteva così lasciare a Palmira Marcellino, funzionario di rango equestre, con il titolo di rector totius Orientis e di praefectus Mesopotamiae (titolo che implicava una specie di opzione per un programmato recupero della provincia strappata a Valeriano da Shapur).
Il viaggio di ritorno dall’Oriente fu, al solito, non poco accidentato dall’addensarsi di insidie barbariche sui confini. Fra Carsio e Sucidava (sempre lungo il Danubio) Aureliano doveva battere i Carpi, accogliendone parecchi sbandati in Tracia e ancora, nel settembre dell’anno 272, la prosecuzione del viaggio di ritorno verso Roma fu impedita da una violenta sollevazione in Alessandria e in Palmira: qui veniva proclamato imperatore un certo Apseo, che a sua volta insediava sul trono di Palmira un Antioco parente di Odenato, mentre ad Alessandria fu un tal Firmo, ricco mercante di Seleucia di Siria, ad assumere il titolo di corrector, sospendendo l’invio a Roma del grano prodotto nella valle del Nilo. Fu dunque negli ultimi mesi del 272 che Aureliano, tornato a Palmira, decise di cancellare quell’antica città centro del commercio carovaniero, distruggendola e riducendola ad un semplice castrum limitaneo; fulmineo fu pure il suo passaggio ad Alessandria, dove Firmo fu costretto a darsi la morte (dopo avere invano invocato l’aiuto dei bellicosi Blemi dell’alto Nilo).
Tutto l’Oriente era tornato sotto il dominio di Roma e Aureliano potè finalmente occuparsi della questione dell’imperium Galliarum, allora retto da Tetrico proclamatosi Augusto, che aveva proceduto a nominare Cesare suo figlio omonimo. Anche per questa campagna ci limitiamo a segnalare la netta vittoria degli imperiali ai Campi Catalauni (Châlons in Champagne), in una battaglia nel corso della quale lo stesso Tetrico si risolse saggiamente a passare dalla parte del legittimo imperatore, che poteva così, lasciando a Probo l’incarico di ricacciare oltre il Reno Franchi e Alemanni, tornare a Roma, e iniziare il suo soggiorno nella capitale.
Dopo adeguati preparativi un memorabile trionfo, celebrato al principio del 274, fu reso insigne dalla contemporanea presenza di Tetrico (con i suoi figli, uno dei quali già Augusto associato a suo padre) e di Zenobia, immancabilmente paragonata, nelle fonti, alla Cleopatra che aveva reso memorabile il trionfo di Cesare, accompagnata dal figlio Vaballato. Donna di qualità notevoli, e di vasta cultura storica, autrice di un compendio di storia alessandrina e orientale, Zenobia “fu trascinata dietro il carro trionfale di Aureliano con uno sfarzo mai visto a Roma, adorna di gemme così pesanti che ne era quasi soffocata, piedi e mani legate da catene d’oro, accompagnata da una guardia persiana che le sorreggeva il collare pure d’oro. Aureliano non la fece uccidere, e si dice che ella sia vissuta come una matrona romana nei pressi di Tivoli, in un podere ancor oggi chiamato Zenobia, non lontano dalla villa di Adriano e dal paesino di Conca”.

Un riscontro prezioso delle notizie sulla serie irresistibile dei successi militari è rappresentato dalla documentazione epigrafica, che nella titolatura di Aureliano si modificò via via con l’accrescersi del numero dei cognomina ex virtute. Lucius Domitius Aurelianus, divenuto Imperator Caesar Lucius Domitius Aurelianus pius felix invictus Augustus, assunsee già nel 270 l’appellativo di Germanicus maximus (dopo la vittoria su Iutungi e Marcomanni) e, ancora nello stesso anno 270, quello di Sarmaticus maximus (dopo la campagna contro i Vandali aiutati dai Sarmati). Agli ultimi mesi del 271 deve farsi risalire il cognomen di Gothicus maximus, mentre nel 272, dopo la vittoria su Zenobia, egli poté dirsi Parthicus maximus (per l’aiuto dato dai Parti a Zenobia), Persicus maximus (titolo equivalente) e Palmyrenicus maximus (usato a Brixia e una sola volta, ovviamente perché considerato riduttivo rispetto a Parthicus o Persicus, che invece enfatizzavano la partecipazione partica al tentativo di difesa del regno palmireno di Zenobia). Successivo alle imprese in Oriente fu pure, nel 272, il titolo di Arabicus maximus, mentre di lì a poco, nello stesso anno 272, Aureliano guadagnava l’appellativo di Carpicus maximus (dal nome dei nemici sconfitti sul Danubio).
Seguì, dopo il trionfo del 274, l’appellativo che sicuramente può ritenersi il più significativo della sua titolatura: restitutor orbis, quasi un esergo in margine alla sua effigie, attestato anche nelle varianti pacator et restitutor orbis, recuperator patriae, recuperata re publica, restitutor patriae (nei quali ultimi è evidente un’ideologia di recupero di antichi valori), mentre nell’imperator Horientis non meno evidente risulta il definirsi, nella percezione collettiva degli abitanti dell’impero, di quell’ambito geografico che preludeva al configurarsi della dioclezianea diocesi d’Oriente, magna pars della longeva pars Orientis che avebbe legato il proprio destino a quello di Bisanzio.

Un’anticipazione delle movenze tipiche delle titolature imperiali del dominato, successive all’avvento di Diocleziano e della tetrarchia, appare, in più di venti iscrizioni, nella locuzione dominus noster, che sostituisce quella di Imperator Caesar, tipica del principato; nelle iscrizioni in lingua greca il latino dominus viene ampliato nella formula ghès kai thalàsses kai pàses oikoumènes despòtes (ossia “padrone della terra e del mare e di tutta l’ecumène”), né fu infrequente il caso di iscrizioni in cui Aureliano, ancora in vita, fu detto divus, deus, deus et dominus natus (quest’ultima appare su leggende monetali).
Emerge con evidenza, insomma, anche da questo più che sommario esame della documentazione, una sensibile accelerazione di quello che era stato il lento ma continuo processo di consacrazione dell’imperatore, dopo che il carattere carismatico dell’autorità imperiale, espresso nel termine di Augustus, si era trasformato da personale in istituzionale, giungendo con Aureliano ad una formulazione più precisa ed inequivocabile del carattere ultraterreno del potere imperiale e della nuova ideologia monarchica di “imperatore per grazia divina”, che ormai sostituiva l’ideale del principato civile, di spirito repubblicano e senatorio. Eloquente, al riguardo, l’episodio narrato dal cosiddetto Anonymus post Dionem: “In occasione di una rivolta militare Aureliano disse che i soldati si ingannavano, se ritenevano che il destino dei re fosse nelle loro mani: era invece il dio che gli aveva dato la porpora – e la mostrava con la destra – e che stabiliva, anche, il tempo del regno” .
Questa affermazione spiega anche la politica religiosa dell’imperatore, coronata nel 274 con la costruzione del tempio del Sole e la istituzione di un collegio di senatori detti pontifices dei Solis che affiancava il vecchio collegio dei pontifices maiores. Il nume materno di Aureliano, il Sole dio di Emesa, doveva essere il centro del rinato paganesimo, che proprio ad Emesa aveva assistito Aureliano nella battaglia decisiva e che ora tornava, dopo il tragico insuccesso dei tempi di Elagabalo, a godere della venerazione dei Romani e a riunire nel suo culto adoratori greci e romani di Apollo e devoti orientali di Mitra ed Elagabal, mentre la forma del culto si faceva, nei canoni ufficiali, romana. Un agone sacro quinquennale istituito more Graeco dallo stesso Aureliano in onore del dio Sol invictus si affiancava all’agon Capitolinus istituito da Domiziano nell’86, e la centralità di Roma, insieme con l’universale dominio del popolo romano, trovava una nuova affermazione nel culto tributato alle statue del genius publicus populi Romani.
L’oro confiscato a Palmira e in tutto l’Oriente, insieme con i redditi delle province riconquistate all’amministrazione centrale crearono una congiuntura favorevole a riforme economiche di rilievo. Aureliano poteva così, nello stesso anno 274, bruciare nel Foro i registri del debito pubblico e, sul versante della riforma monetaria, dopo l’interruzione imposta dalla sanguinosa rivolta del 271, riprendere la coniazione in argento a titolo migliorato e con la concentrazione esclusivamente nelle mani dell'’mperatore del diritto di battere moneta. Anche un potenziamento della organizzazione annonaria consentì l'’ntroduzione della distribuzione al popolo di pane confezionato, olio, carne porcina e vino, garantite da prestazioni obbligatorie imposte alle corporazione dei pistores romani e dei navicularii o battellieri del Tevere e del Nilo, la cui opera si rese indispensabile per il funzionamento di un pubblico servizio esteso ora ad una massa di plebs urbana di dimensioni notevolmente accresciute (dal numero tradizionale di duecento o duecentocinquantamila capita si era passati a quasi trecentomila): si trattava, per le corporazioni, di sopportare corvées di carattere militaresco, inizio di una pratica di servizio coattivo del lavoro, che fu esteso anche alla immane opera di costruzione delle mura, affidata a manodopere professionali.
Già nel lontano passato le missioni in Oriente si rivelarono spesso fatali per i destini dell’impero. Mentre si accingeva ai preparativi per l’accennata spedizione in Mesopotamia, la terra fra i due fiumi, rimasta in gran parte in mano ai Persiani, Aureliano fu vittima di una vendetta privata innescata da un banale incidente occorso in Tracia, sulla via fra Perinto e Bisanzio, in una località chiamata Cenofrurio dove il suo segretario personale Eros (o Mnesteo), colto in flagrante prevaricazione e minacciato di punizione, riuscì con un documento falsificato a convincere alcuni ufficiali dello stato maggiore che anche la loro vita era in pericolo (aneddoti del tutto simili si raccontano per le uccisioni di Domiziano e di Commodo). Fu dunque decisa di comune accordo con Eros l’uccisione dell’imperatore per evitarne la minacciata reazione, e soltanto quando era troppo tardi venne a galla la verità. Eros fu subito punito con la morte, e l’esercito non volle acclamare alcuno degli assassini di Aureliano, e anzi ripetutamente rinviò al senato la scelta del nuovo imperatore. Per circa sei mesi, fra l’aprile e il settembre del 275, l’imperatrice Severina regnò in nome del defunto consorte, come mostrano le sue monete, battute da tutte le zecche coi tipi della concordia Augg., fino a che si riuscì a persuadere il settantacinquenne Tacito ad accettare un onore che equivaleva ad una sicura condanna a morte.

Nella interminabile galleria dei ritratti degli imperatori romani il nome di Aureliano è dunque da registrare fra quelli che la nostra memoria collettiva non ha potuto dimenticare: non tanto perché esso sia legato ad una particolare iconografia (la sua figura è nota solo da tipi monetali piuttosto stereotipati) ma a motivo della spettacolare onnipresenza delle grandiose mura di cui egli dotò l’Urbe, che con i 19 chilometri del loro percorso sono certamente fra i più vistosi resti del mondo antico. Un doveroso tributo a questa più che millenaria sopravvivenza e insieme una non meno doverosa denuncia dell’affievolirsi del nostro senso comune della storia vuole essere, in chiusura di questo nostro rito collettivo di rievocazione, la riflessione su un avvenimento recente che ha portato alla ribalta dell’attualità il nome del nostro buon imperatore. Mi riferisco al crollo, avvenuto nell’aprile del 2001 (e dunque con geometrica precisione in prossimità del compiersi dell’anno 2753 a.u.c.), di un tratto delle mura adiacenti alla Porta S. Sebastiano, e al contenuto di alcuni notiziari ascoltati casualmente durante i soliti interminabili spostamenti in città. La notizia, diffusa in prima battuta, riferiva del crollo in modo corretto, aggiungendo che esso si era verificato in corrispondenza di un segmento della cinta già sottoposto a restauro nel corso degli anni settanta: non veniva stabilito, si badi bene, un nesso di causa ed effetto fra il restauro e il crollo, ma si forniva una informazione più che dovuta, e la si forniva in modo che non può assolutamente considerarsi tendenzioso e anzi possiamo aggiungere che sarebbe stato disonesto tacere sulla circostanza di quel lavoro di restauro, visto che fatti più recenti e ancor più drammatici ci hanno mostrato che questi antichi manufatti quasi mai cadono da soli, senza almeno un piccolo “aiutino” di “tecnici” più o meno contemporanei e sapientissimi. Poche ore dopo, nel pomeriggio, un secondo notiziario replicava la notizia del crollo, accompagnandola con una risibile levata di scudi: una riunione di tecnici della Soprintendenza nel corso della quale il crollo veniva spiegato con la circostanza che le mura erano state costruite in fretta, alla meglio e insomma non bene in una città ormai minacciata da incombenti orde barbariche e in piena crisi del terzo secolo. Soltanto il giorno successivo fu diffusa, in terza battuta, la banale verità che il maldestro restauro degli anni settanta (in piena crisi del centro sinistra, direbbe oggi qualcuno molto in alto) ostruendo a forza di cemento gli antichi drenaggi del muro, aveva impedito il regolare deflusso delle acque piovane responsabili (si fa per dire) del successivo spanciamento del venerando manufatto. Mi è rimasta la curiosità di sapere qualcosa di più sull’identità di quegli esperti o tecnici che in pieno 2001, in una città nella quale crollavano a sorpresa palazzine costruite in cemento armato dopo il 1970 da ingegneri laureati nelle nostre università (e non nel Politecnico alessandrino di Erone), sono riusciti a dire che quell’antico muro, costruito fra il 271 e il 276 dell’era volgare e rimasto in piedi per più di 1700 anni, sopravvivendo a centinaia di terremoti, alluvioni, attacchi di artiglieria, spoliazioni di materiale edilizio, crollava ora perché costruito male, in fretta e in un momento di crisi. Pensai anche, ricordo bene, che quella vergognosa distorsione della verità non poteva essere addebitata agli esperti della Soprintendenza che volevano giocare a scaricabarile sul povero, oltre che defunto e dunque non perseguibile Aureliano, e conclusi che fosse stata mancanza del cronista fraintendere il senso di parole venate di sottile ironia. Ma pare che non vi sia stata alcuna ironia e al nume qui presente del divo Aureliano siamo debitori di questo stimolo a continuare a servirci della storia antica per capire il nostro presente: qualcuno ha di recente affermato, con autorevolezza non inferiore a quella del severo imperatore, che tutti i politici di professione sono ladri, e io aggiungerei un “forse”. Invece è sicuro, al di là di qualsiasi ragionevole dubbio, che qualche archeologo di professione meriti d’esser chiamato idiota.


Nota bibliografica

Fonti della vita e del regno di Aureliano possono considerarsi le poco attendibili vite degli S.H.A., a cominciare dalla Vita Aureliani attribuita a Flavio Vopisco, cui possono affiancarsi le vite di Tetrico, Zenobia, Odenato e alcune fra quelle dei c.d. Trenta tiranni. Vi sono poi naturalmente i brevi passi di Eutropio (su quest’ultimo S. RATTI, Les empereurs romains d’Auguste à Dioclétien dans le Bréviaire d’Eutrope, Paris 1996, pp. 332-339), Aurelio Vittore (Liber de Caesaribus), dell’anonimo autore della Epìtome de Caesaribus, i frammenti pervenuti delle cronache di Dexippo ed Eunapio, confluite nella Storia nuova di Zosimo e altri cenni in Màlala, Xifilino, Zonara, Orosio e nel Cronografo del 354, oltre che varie voci del lessico della Suida. Le epigrafi sono passate in rassegna da G. SOTGIU, Studi sull’epigrafia di Aureliano, Palermo [Palumbo] 1961 (della stessa Sotgiu la più recente rassegna in “A.N.R.W.” del 1975).
Sulla figura di Aureliano informano ampiamente il lavoro monografico di L. HOMO, Essai sur le régne de l’empereur Aurélien (270-275), Paris 1904, e le ottime sintesi di F. FUCHS, s.v. Aurelianus, in “Diz. epigr.” I, Roma 1895, pp. 930-937; G. M. COLUMBA, s.v. Aureliano, in “Enc. it.” V (1930), pp. 365-368; ampio spazio alla figura di Aureliano viene dedicato nelle trattazioni manualistiche: A. CALDERINI, I Severi. La crisi dell’impero nel III secolo, Bologna 1949, pp. 197-211; L. PARETI, Storia di Roma e del mondo romano. VI. Da Decio a Costantino (251-337 d.C.), Torino 1961, pp. 70-107; H. MATTINGLY, La ripresa dell’impero, in “Crisi e ripresa dell’impero”, Milano 1970, pp. 345-359 (traduzione italiana della “C.A.H.” vol. XII, 1, London 1961); M. A. LEVI, L’impero romano dalla battaglia di Azio alla morte di Teodosio I, Milano 1967, pp. 915-929 (ristampa dell’ed. di Torino [S.E.I.] 1963). Sulla rivolta dei monetieri v. soprattutto C. GATTI, La politica monetaria di Aureliano, in “La parola del passato” XVI (1961) pp. 93 sgg. – Per l’iconografia di Aureliano, che la Vita del sedicente Vopisco (cap. 6) e Malala (12, 229, 18 p. 67 SCHENK) descrivono come un uomo di alta statura, di grande forza fisica e di aspetto maestoso, anche se non corpulento, con occhi piccoli e canuto (così Zozimo, I, 51 BEKKER), si veda D. FACCENNA, s.v. Aureliano, in “E.A.A.” I, Roma 1958, pp. 928-930 e figg. 1165, 1166. Secondo Aurelio Vittore egli avrebbe, primo fra i Romani, portato sul capo il diadema ornato da una stella, ma questo ornamento non compare sulle monete, in cui sia il costume, sia la moda della barba e dei capelli tagliati corti, non subiscono modifiche rispetto a quelli del suo predecessore Claudio II il Gotico; si veda anche la postilla di aggiornamento curata da K. FITSCHEN nel “Secondo supplemento”, I, Roma 1984, p. 565, dove si osserva che dell’imperatore Aureliano non è stato finora identificato con certezza alcun ritratto a tutto tondo: un dato inspiegabile se si considera l’importanza storica del personaggio e il periodo relativamente lungo del suo regno. La difficoltà di identificazione è dovuta anche allo stile dei ritratti monetali, che non presentano caratteristiche individualizzanti e che divergono fortemente in alcuni dettagli quali la forma del cranio e l’attaccatura dei capelli.